Le parole che scrivo fanno parte di me.
Mi appartengono come l’aria mentre la respiro.
Sono vive.
Io le lascio andare, non le trattengo, perché le parole servono a condividere intrecciare abbracciare, dire. Si espirano.
Servono ad esprimere perché “spremono fuori”, come l’olio delle olive.
Servono a sprigionare perché liberano da una prigione le cose più autentiche.
Le parole si sgranano come i piselli e i grani del rosario, si trasformano in farina per fare il pane che si mangia insieme. Scorrono come acqua di sorgente, rinfrescano come la pioggia, bruciano come il fuoco, sostengono come la terra sotto i piedi.
Si mangiano, si bevono, si respirano le parole.
Si guardano negli occhi, perché hanno uno sguardo, un corpo, un’espressione.
Si sentono le parole, e poi si dicono. E tra il sentirle e il dirle a volte passa una vita, perché non sempre si riesce a dire quello che non si sente con le orecchie.
Non si copiano, le parole, ma si citano, si recitano, si suscitano, si sollecitano, si incitano, si eccitano. Non si copiano perché si vede quando stai usando parole non tue, è come nascondersi dietro una maschera: si possono condividere, e allora è diverso, perché quando le condividi le parole si aprono come semi, mentre se le copi rimangono appiccicate, diventano sterili.
Non si usano le parole, perché non sono oggetti. Sono frammenti di sguardo, di vissuto, di sentire.
A volte altri sanno dire le cose come le sentiamo noi. Quand’è così, è bello condividerle. Dando un nome a quelle parole, se non sono le nostre. Perché altrimenti è un abuso.